Bollettino Sala Stampa della Santa Sede https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino.html Bollettino Sala Stampa della Santa Sede it Celebrazione Eucaristica nel settimo giorno dei Novendiali https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2025/05/02/0293/00518.html
Alla Celebrazione sono state invitate in particolare le Chiese Orientali.

La Concelebrazione è stata presieduta dall’Em.mo Cardinale Claudio Gugerotti, già Prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che l’Em.mo Card. Claudio Gugerotti ha pronunciato nel corso della Santa Messa:



Omelia dell’Em.mo Card. Claudio Gugerotti

Beatitudini, venerati Padri Cardinali, fratelli e sorelle,

qualche giorno fa abbiamo pregato sulla salma del nostro Santo Padre Francesco e su quel corpo abbiamo proclamato la nostra fede incrollabile nella risurrezione dei morti. In questi giorni la nostra certezza e la nostra invocazione continuano perché il Signore guardi con misericordia al suo servo fedele.

La risurrezione, infatti, come ci ricorda la prima Lettura, non è un fenomeno intrinseco alla natura umana. È Dio che ci fa risorgere, mediante il suo Spirito. Dalle acque del Battesimo noi siamo emersi come nuove creature, familiari di Dio, suoi intimi o, come dice San Paolo, figli adottivi e non più schiavi. Ed è proprio perché figli che nel medesimo Spirito ci è concesso di gridare la nostra invocazione: “Abbá, Padre”. A questo grido si associa la creazione intera che, nelle doglie del parto, aspetta la sua guarigione. Sembrano avere così poco valore oggi il creato e la persona umana. Eppure tra noi ci sono Cardinali, come quelli provenienti dall’Africa, che sentono spontaneamente la bellezza del frutto di queste doglie, perché una nuova vita è per i loro popoli un valore inestimabile.

Emerge poi il tema della creazione come compagna di viaggio dell’umanità e solidale con essa, così come essa chiede solidarietà al genere umano, perché sia rispettata e guarita. È questo un tema che fu molto caro al nostro Papa Francesco.

Intorno a noi non facciamo altro che percepire il grido della creazione e in essa quello di chi è destinato alla gloria ed è la finalità per la quale la creazione è stata voluta: la persona umana. Grida la terra ma soprattutto grida una umanità travolta dall’odio, a sua volta frutto di una profonda svalutazione del valore della vita che, come abbiamo sentito, per noi cristiani è partecipazione alla famiglia di Dio, fino alla concorporeità e consanguineità con il Cristo Signore, che stiamo celebrando in questo sacramento dell’Eucaristia.

Molto spesso questa umanità disperata fatica a esprimere nel grido la sua preghiera e invocazione al Dio della vita. Ed è allora, ci ricorda San Paolo, che lo spirito interviene dentro di noi e rende i nostri silenzi rocciosi e le nostre lacrime inespresse un’invocazione al nostro Dio con gemiti inesprimibili o, come pure si può tradurre, con gemiti inespressi, cioè silenziosi. È questa un’espressione tanto cara al mondo cristiano orientale che vede nella incapacità di esprimere Dio (apofasi) una delle caratteristiche della teologia: contemplazione dell’incomprensibile, vano tentativo di togliere il velo alla verità somma e quindi, al massimo, possibilità di dire, come ripeterà in occidente San Tommaso d’Aquino, non ciò che Dio è, ma ciò che Egli non è.

Ecco un grande insegnamento per noi che spesso ci sentiamo i padroni di Dio, i conoscitori perfetti della verità, mentre siamo solo dei pellegrini a cui è stata data la Parola, che è il Figlio di Dio incarnato, perché ciò che ci ha dato il dono di vivere nella gloria di Dio è solo frutto di grazia e di quell’infusione dello Spirito Santo che ci fa, appunto, “spirituali”. E in oriente, padre e madre spirituale sono il monaco, la monaca o comunque la guida di quanti cercano Dio. Anche noi occidentali, significativamente prima di aver chiamato queste persone “direttori” spirituali, li abbiamo chiamati padri e madri spirituali. Un interessante cambiamento.

In questa Eucaristia noi intendiamo unirci come possiamo e sappiamo, pur nelle nostre aridità, distrazioni, continue perdite di focalizzazione sul solo necessario, al gemito inesprimibile dello Spirito che grida a Dio ciò che gli è gradito e ciò che esprime in pienezza il gemito della nostra natura, che noi non sappiamo formulare in parole, anche perché non ci concediamo neppure, travolti dalla fretta, il tempo per conoscerci, per conoscerlo, per invocarlo. Sant’Agostino ci invita ad entrare dentro a noi stessi perché è lì che si può trovare il senso autentico che non solo esprime ciò che siamo, ma grida al Padre il nostro bisogno di essere figli amati, ripetendo: “ Abbá, Padre ”: “ Noli foras ire, in te ipsum redi; in interiore homine habitat veritas ”.

Chi ama la sua vita la perderà - ci ricorda il Vangelo secondo Giovanni - e chi odia la propria vita la troverà. In questa frase così estrema il Signore esprime la nostra specificità di cristiani, considerati dal mondo seguaci di un perdente, di uno sconfitto della vita, che attraverso la morte, e non attraverso l’edificazione di un regno terreno, ha salvato il mondo e redento ciascuno di noi.

Papa Francesco ci ha insegnato a raccogliere il grido della vita violata, ad assumerlo e presentarlo al Padre, ma anche ad operare per alleviare concretamente il dolore che suscita questo grido, a qualsiasi latitudine e negli infiniti modi con cui il male ci indebolisce e ci distrugge.

Oggi la liturgia viene animata e partecipata da alcuni dei Padri e dai figli e dalle figlie delle Chiese Orientali cattoliche, presenti insieme con noi per testimoniare la ricchezza della loro esperienza di fede e il grido della loro sofferenza, offerta per il riposo eterno del defunto Pontefice.

Ad essi noi diciamo grazie per aver accettato di arricchire la cattolicità della Chiesa con la varietà delle loro esperienze, delle loro culture, ma soprattutto della loro ricchissima spiritualità. Figli degli inizi del cristianesimo, essi hanno portato nel cuore, insieme con i fratelli e le sorelle ortodossi, il sapore della terra del Signore, e alcuni addirittura continuano a parlare la lingua che Gesù Cristo parlò.

Attraverso gli sviluppi prodigiosi e dolorosi della loro storia, essi raggiunsero dimensioni importanti ed arricchirono il tesoro della teologia cristiana con un apporto tanto originale quanto, in buona parte, da noi occidentali sconosciuto.

Nel passato gli Orientali cattolici hanno accettato di aderire alla piena comunione con il successore dell’apostolo Pietro il cui corpo riposa in questa Basilica. Ed è nel nome di questa unione che hanno testimoniato, spesso col sangue o la persecuzione, la loro fede. In parte ora ridotti, di numero e di forze ma non di fede, proprio dalle guerre e dall’intolleranza, questi nostri fratelli e sorelle rimangono saldamente aggrappati a un senso della cattolicità che non esclude, ma anzi implica, il riconoscimento della loro specificità.

Nello scorrere della storia essi furono a volte poco capiti da noi occidentali, che, in alcune epoche, li giudicammo e decidemmo che cosa di quanto essi, discendenti di apostoli e di martiri, credevano era o non era fedele alla teologia autentica (cioè la nostra), mentre i loro fratelli ortodossi, consanguinei e partecipi della stessa cultura, liturgia e modo di sentire l’essere e l’operare di Dio, li consideravano fuggiti di casa, perduti alla propria origine e assimilati a un mondo allora ritenuto reciprocamente incompatibile.

Papa Francesco, che ci ha insegnato ad amare la diversità e la ricchezza dell’espressione di tutto ciò che è umano, oggi credo esulti al vederci insieme per la preghiera per lui e per l’intercessione di lui. E noi ancora una volta ci impegniamo, mentre molti di loro sono costretti a lasciare le loro antiche terre, che furono Terra Santa, per salvare la vita e vedere un mondo migliore, a sensibilizzarci, come aveva voluto il nostro Papa, per accoglierli e aiutarli nelle nostre terre a conservare la specificità del loro apporto cristiano, che è parte integrante del nostro essere Chiesa cattolica.

Agli occhi e al cuore dei nostri fratelli e sorelle d’Oriente è sempre stato caro custodire l’incredibile paradosso dell’evento cristiano: da una parte la miseria del nostro essere peccato, dall’altra l’infinita misericordia di Dio che ci ha collocati accanto al suo trono a condividere persino il suo essere, mediante quella che con il grande Vescovo e Dottore sant’Atanasio, che la Chiesa ricorda oggi, definiscono “divinizzazione”.

La loro liturgia è tutta intessuta di questo stupore. E così, ad esempio, in questo tempo liturgico, la tradizione bizantina ripete senza fine questa esperienza ineffabile, dicendo, cantando e comunicando agli altri: “Cristo è risorto dai morti, calpestando con la morte la morte, e ai morti dei sepolcri ha elargito la vita”. E lo ripetono costantemente, come per farlo entrare nel cuore proprio e degli altri.

Questo stesso stupore esprime anche la liturgia armena, nel pregare con le parole di quel San Gregorio di Narek che proprio Papa Francesco volle ascrivere tra i Dottori della Chiesa e che la tradizione ha reso parte integrante dell’eucologia eucaristica: “Noi ti imploriamo, Signore, i nostri peccati siano consumati dal fuoco come quelli del profeta furono consumati dal carbone ardente offertogli con le pinze, così che in tutto la tua misericordia sia proclamata come la dolcezza del Padre fu annunciata attraverso il Figlio di Dio, che condusse il figlio prodigo a tornare all’eredità paterna e guidò le prostitute alla beatitudine dei giusti nel regno dei cieli. Sì, anch’io sono uno di loro: ricevi anche me al pari di loro, come bisognoso del tuo grande amore per l’umanità, io che vivo per le tue grazie”.

Ecco solo due esempi della forza vibrante con cui l’emozione del cuore si mescola in oriente alla lucidità della mente per descrivere la nostra immensa povertà salvata dall’infinità dell’amore di Dio.

Cari confratelli Cardinali, mentre sempre più prossimi si fanno i giorni in cui saremo chiamati a scegliere il nuovo Papa, poniamo sulle nostre labbra l’invocazione dello Spirito Santo che un grande padre orientale, San Simeone il Nuovo Teologo, scrisse all’inizio dei suoi inni: “Vieni, luce vera; vieni, vita eterna; vieni, mistero nascosto; vieni, tesoro senza nome; vieni, realtà ineffabile; vieni, persona inconcepibile; vieni, felicità senza fine; vieni, luce senza tramonto; vieni, attesa infallibile di tutti coloro che devono essere salvati. Vieni, tu che ha desiderato e desidera la mia anima miserabile. Vieni, tu, il solo, a me, solo, perché tu lo vedi che io sono solo; affinché, vedendoti in eterno io, morto, viva; possedendo te, io, povero, sia sempre ricco e ricco più dei re; io che mangiando e bevendo di te e vestendomi in ogni istante di te, passi di delizia in delizia ai beni inesprimibili, perché tu sei ogni bene e ogni gloria e ogni delizia ed è a te che appartiene la gloria, o santa, consustanziale e vivificante Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo (…) ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen”.

[00518-IT.01] [Testo originale: Italiano]

[B0293-XX.02]

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Fri, 02 May 2025 18:13:07 +0200 https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2025/05/02/0293/00518.html